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Se mi facevi del male

Dopo ventisei anni sono venuto a cercarti e ti ho trovata.
Riposi vicino a tua madre e no, non vi assomigliate.
Anche tu eri nata il diciotto e forse potevamo andare d’accordo.
Ma tu mi amavi e non volevi farmi del male.
Se me ne facevi, forse ti avrei salvata.

Concorso Letterario “Racconta il tuo parco” 

Concorso Letterario ‘Racconta il tuo parco’ – 1a Edizione 25 maggio/25 settembre 2022

La libreria & caffè letterario Blue Room di Roma e l’associazione culturale e sociale CrunchEd, indicono la prima edizione del concorso letterario Racconta il tuo parco.
Finalità dell’iniziativa è la promozione sociale e culturale attraverso i libri, la lettura e il confronto di idee, dando spazio e voce  a coloro che vorranno condividere le proprie creazioni narrative. 
Il concorso si rivolge a tutti gli appassionati di scrittura, alle prime armi e non, e offre loro la possibilità di misurarsi con la propria scrittura e di condividerla. 

Per maggiori informazioni leggi il bando e scarica il modulo di partecipazione.

Camminavamo

Camminavamo. Non ce lo aveva ordinato il medico ma suo padre, che era stanco di vederci sotto casa, “attaccati ai muri come manifesti” diceva lui. E quindi andavamo in giro per il quartiere, in centro città o dove capitava e quando faceva buio tornavamo ad incollarci alle pareti.
Camminavamo, e lo si faceva tenendosi per mano, io con la destra e lei con la sinistra, fino a quando per il sudore la presa si allentava e allora ci davamo il cambio: io le prendevo la sinistra e lei mi porgeva la destra.
In casa sua ci entrai solo una volta, forse due e per pochi minuti. In casa mia lei ci entrò due volte: la prima perché dovevo prendere dei dischi e prestarglieli. La seconda per mangiarci una pizza insieme a una comune amica.
Ma a noi piaceva camminare, fino a quando ci sudavano i piedi e pure le mani. E ci piaceva restare incollati come lucertole alle pareti sotto casa, giocare con le correnti d’aria e qualche volta pure con l’ascensore.
Camminavamo senza essere mai stanchi, fino a quando giunti ad un bivio le nostre mani sgusciarono, come solo i pesci sanno fare. Io presi una direzione e lei l’altra, e ci lasciammo così,  con le mani umide e appiccicose.

La regola del tre

 

Quando erano scaduti i tre anni lei si presentò a casa sua con un cofanetto di legno intarsiato.
“Oggi sono tre anni” gli disse.
“Sì, sono tre anni”.
“Ti ricordi quando mi hai detto che io assomigliavo a un tre?”
“Sì, lo ricordo. È stato proprio tre anni fa. Te lo dissi per la bocca, per la forma delle tue labbra, sottili quelle superiori e morbide quelle inferiori”.
Lei sorrise e appoggiò il cofanetto sul tavolo.
“Cosa c’è lì dentro?”
“Il tuo cuore”.
Istintivamente lui si portò la mano al petto. Batteva ancora, fece un sospiro e poi si passò la mano sulla fronte.
“Ma che stai dicendo? È ancora qui!”
“Sciocco. Ci sono tutti i tuoi regali preziosi: anelli, collane, bracciali”.
“E perché?”
“Per la regola del tre”.
“Non capisco. Che c’entra le regola del tre?” disse portandosi di nuovo la mano sul petto. Questa volta lo sentiva battere forte. Gli pulsava anche la gola e le parole uscivano a fatica.
“La regola del tre dice che un amore dura tre anni. Il primo è fantastico, il secondo mediocre, il terzo da incubo”.
“Continuo a non capire”.
“È finita, mi dispiace. Forse era meglio se avessi avuto le labbra a forma di otto. Ma non preoccuparti, fra tre anni mi dimenticherai. La regola del tre vale anche per questo”.

Come ingannare la morte

Nel nuovo secolo mia nonna ci entrò a piedi uniti, come un mediano sul centravanti avversario. Era nata nel 1893 e un tempo io mi divertivo a giocare con la sua data di nascita.
“Nel 1893 Paul Verlaine era ancora vivo, magari l’ha anche visto” pensavo. Del tutto improbabile, considerato che lui viveva in Francia e mori quando mia nonna aveva solo un paio d’anni. Ma era bello giocare con i nomi illustri del passato e pensare a quanto potevano essersi avvicinati a mia nonna, temporalmente e perché no, anche fisicamente, per puro caso.

Nei lunghi pomeriggi trascorsi fianco a fianco, sul divano di pelle, o sulla “tomana”, come la chiamava lei, mi raccontava dei suoi fidanzati morti per la spagnola, di quelli segati in due dalle mitragliatrici, di quelli che le facevano la serenata sotto casa con chitarre e mandolini.
Mi raccontava dei suoi nove fratelli e di lei che era l’ultima di dieci, di quanti funerali aveva assistito, quanti corpi aveva vegliato. Di suo padre al quale dava del “voi”, che riusciva sempre a dormire tranquillo perché prendeva le cose come venivano.

Compiva 52 anni quando nel Sol Levante provarono ad aggiungere un nuovo sole e chissà se lo aveva visto, chissà se mentre soffiava sulle candeline o rivolgeva un pensiero alla sua primogenita morta tre anni prima sentì qualcosa rimbombare sotto i piedi, un bagliore lontano, una brezza fra i capelli. Era solo a metà della sua vita, non so dire se la seconda sia stata meglio della prima, se la prima peggiore della seconda. La vita va valutata interamente e lei la visse a lungo.
“Tutti mi chiamano Vittoria ma il mio nome è Anna” diceva ogni tanto.

Forse sta lì il segreto, nell’usare un nome falso per ingannare la morte.
Buon compleanno nonna.

Che poi il tuo nome nemmeno iniziava per emme

panirlipe-piano03Te lo dicevo di non toccarmi le mani mentre suonavo e aggiungevo pure di non pizzicarmi i fianchi. Perché a te piaceva fare quello e qualcuno diceva che ti piaceva fare anche molto altro.
“Lasciami suonare, mi fai andare fuori tempo” dicevo schiaffeggiandoti le mani.
Io suonavo la tastiera per stare in disparte, laggiù, dove nessuno ti vede. Mica volevo mettermi in mostra, altrimenti facevo il chitarrista o il cantante, non ti pare? Il guaio è che piaceva anche a te stare in disparte, laggiù, dove nessuno ti vedeva.
“Mimi, lascia perdere, lasciami suonare”.
“Ma a me piace stuzzicarti” dicevi incastrando le dita tra le mie, proprio mentre dovevo fare il Si maggiore.
“Ma se il tuo nome nemmeno inizia per emme!” ti dissi.
“È per questo che mi faccio chiamare Mimì”.

Perché tutti i nomi dovrebbero iniziare così o almeno contenere una iato, un gioco di vocali, tante vocali! Nel nome o nel cognome.
Il tuo invece era una mostarda di suoni duri, tante consonanti secche, indurite come il cemento.
“Mimì, lascia perdere” ti dicevo, anche se avrei volentieri affogato le dita fra i tuoi capelli e cercato quelle note che di sicuro non erano sintetiche come il suono della tastiera.

Di quei giorni non so se sia più bello ricordare tuo fratello che faceva piangere la chitarra come nessun altro, oppure tu che spuntavi sulle scale con l’accappatoio bianco, la testa e i piedi bagnati.
Oppure tua madre, anziana e vedova, ma così bella che avrei voluto perdere i capelli e i denti all’istante, invecchiare di colpo e trascorrere il resto del tempo con lei, a pelare cipolle, tirare la pasta e tastare il culo alle galline per vedere se l’uovo era pronto ad uscire. E lei sì, aveva un nome che iniziava per emme.

Tra le Nuvole

Sono in coda per salire alla stazione di mezzo, situata a circa duemila metri di altezza. Si sale uno alla volta, su seggiolini robusti ma che dimostrano la loro appartenenza al secolo scorso, forse addirittura a quello precedente, se le seggiovie erano state inventate.
Nell’attesa mi giro: dietro di me una ragazza sfoglia la guida e io sfoglio lei con gli occhi: stivaletti neri e robusti ma poco adatti a camminare in montagna; pantaloni aderenti, pratici e comodi; canotta nera, forse traspirante ma incapace di contenere tutto; viso ovale, un sorriso velato e costante, capelli neri e lunghi.
Distolgo subito lo sguardo. In pochi secondi temo di aver assimilato lo struggimento provato da Dante, Petrarca ma pure, nell’ordine, da Teseo, Menelao e Paride di fronte alla bellezza di Elena.
“È un peccato che questo tratto abbia seggiolini individuali” penso mentre passo il tornello. Mi siedo e comincio a salire, fingo di guardare il panorama alle mie spalle e intanto guardo lei che si siede e sale.
Arrivati nella stazione intermedia mi fermo a osservare la città e la vallata e lo stesso fa lei, fino a quando si incammina lungo il breve sentiero per raggiungere la stazione successiva e salire ancora più in alto, dove regnano le nuvole. Mi chiedo se le abbia qualcosa di pesante nella borsa che tiene a tracolla.
Mi porto dietro, mi affianco e le dico:
“Scusa, posso dirti una cosa?”
Lei sorride, forse già lo stava facendo e per dirla tutta sarebbe stato meglio se non l’avesse fatto. Ma ormai non potevo più tirarmi indietro.
“Sì, prego”.
“Non so perché lo faccio ma raggiunta una certa età è necessario tralasciare le paure e qualche volta agire d’istinto. E poi, se le parole restano dentro rischiano di prendere il posto del calcare e intaccare lo smalto dei denti”.
Lei mi guarda disorientata e capisco che mi devo affrettare: la stazione è vicina.
“Non l’ho mai fatto ma ora devo. Posso sembrare folle o dare l’impressione di importunare, ma non è così. Ed è per questo, che una volta detto, subito dopo mi allontanerò”.
Lei mi guarda divertita, in ansiosa attesa.
“Sì?”
“Sei bellissima. Quando ti ho vista laggiù, in attesa di partire, ho sentito il cuore perdere alcuni battiti e ne sono sicuro, non li recupero più. Mi sono venute le palpitazioni, ma quelle sono altra cosa. Ho provato un senso di vertigine e mi si sono appannati gli occhi, come quando per sbaglio osservi il sole senza riparo. All’improvviso ho perso la salivazione, forse pure la forza nelle gambe… per fortuna c’è un altro tratto di seggiovia. Ecco, tutto qui, ora ti lascio. Scusa per il disturbo”.
Siamo ormai davanti all’entrata, davanti a noi sfilano i seggiolini a quattro posti che portano in cima.
Questa volta è lei ad osservarmi, dai piedi fino alla testa. Alzo le mani, come per chiedere scusa se sono stato inopportuno, invece, con un cenno della testa indica la vetta e dice:
“Ti va di salire con me sulle nuvole?”

Il Gino, Marta ed io

Il Gino, Marta ed io

 Il Gino era andato in pensione a trentacinque anni, perché così avevano voluto gli dei. Era allegro e in salute, ma la sera lo assaliva la malinconia e per questo andava al 6Calzoni a vendere tessere della tombola. Il gestore lo ricambiava con tranci di pizza e un bianco malfermo.
Ero lì con lui, mi stavo divertendo e il Gino mi fece vedere quanto era esteso quel locale, così grande che volendo ci si poteva giocare a tamburello.
All’improvviso sentii chiamare il mio nome, mi voltai e seduta ad un banco vidi una ragazza il cui nome se ne stava nascosto da qualche parte ma proprio non mi veniva in mente. Pure lei era allegra, mi divertiva e quando stavo per dirle: “Scusa, mi rincresce ma il tuo nome proprio non lo ricordo”, una signora arcigna, alta come due scope e larga come il frigo delle bevande, gridò:
“Marta! Stai dritta con quella schiena o te la raddrizzo io”.
“Ecco, Marta” mi dissi. “Sì, questo era ed è il suo nome. Ma quanto è piccola, sembra una bambina”
Nonostante il rimprovero continuava a sorridere e per dirla tutta era anche un po’ troppo invadente: si avvicinava con il volto, quasi mi annusava e chissà cosa poteva pensare la gente, se ce ne fosse stata.
“Marta, scusa ma…sei una ragazzina, non sta bene”.
“Macché, sono soltanto dimensionata male. Ora esco dal sogno e rientro nelle giuste dimensioni. Aspettami qui”.
Ordinai una birra, il Gino mi portò un trancio di pizza e una tessera della tombola.
E attesi.