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NORMALITÀ

Normalità

Dopo aver ascoltato il Bollettino del Mare il ragazzo andò alla Capitaneria di Porto e si presentò per la richiesta di mozzo. Salì a bordo entusiasta, sia per i paesi che avrebbe visitato, sia per la paga.
Il giorno seguente lo trascorse vomitando dal ponte dell’imbarcazione, il secondo pelando le patate. Il terzo vomitando di nuovo e il quarto a lucidare il ponte, il bompresso e le bitte.
Con stupore scoprì che il mare non era una distesa placida d’acqua, anzi, spesso borbottava come una pentola in ebollizione.
“Che te ne pare?” gli chiese il nostromo.
“Immaginavo una cosa diversa”.
“Pensavi che la traversata fosse come navigare su un fiume lungo e tranquillo?”
“Già”.
“E invece è come la vita: limpida e spumeggiante ma anche increspata e tempestosa; calma e serena ma anche agitata e scura”.

21 maggio 2020 | Fase



Dal calendario a muro staccò il foglio del giorno precedente. Di solito usava questi fogli per accendere il camino o raccogliere gli insetti che si intrufolavano in casa. Spesso finivano accartocciati nel sacchetto della carta, insieme a vecchie bollette, giornali, riviste e imballi riciclabili.
Di rado, quel foglio finiva in una cartella blu, quella che raccoglieva tutti i giorni speciali, belli o brutti non aveva importanza. Erano date che avevano significato un punto di svolta, l’inizio di una nuova fase.
Non gli serviva descrivere cosa fosse successo, di ogni giorno aveva memoria e gli bastava leggere il numero per rivivere ogni esatto momento, farsi pervadere dalla malinconia, ridere o piangere.

Attese

5 maggio 2020 | Attese

A ripensarci bene, quel treno che ci condusse a Venezia doveva aver compiuto un tragitto particolare: non ricordo di aver rivisto quei paesi, quegli scorci, quei caselli e le stazioni vuote. Come se per un giorno il treno fosse dirottato dai consueti binari per farsi un giro largo, ad ampio respiro, dilatare le distanze e il tempo.
E non raccogliere nessuno, perché oltre a Luca e alla sua ingombrante radio militare, c’era soltanto una ragazza con un pacco di spartiti sulle ginocchia. Con la mano destra pennellava le note nell’aria e seguiva un ritmo tutto suo, distante da quello di Walking on the Moon della radio.
Erano i nostri verdi anni delle tante aspettative, ora sono diventati quelli delle attese.

15 aprile | Ignoto

15 aprile | Ignoto
Aveva conosciuto la biodiversità della foresta amazzonica, il deserto costiero del mar Rosso e la savana alluvionale del delta del Nilo. Per alcuni anni era vissuto nella zona tra il bassopiano indo-gangetico e l’altopiano del Tibet. Si era poi ritirato in un paesaggio lussureggiante, con montagne, foreste pluviali e spiagge con barriere coralline.
Era felice, consapevole di aver esplorato, appreso e messo in pratica.
Non aveva alcun dubbio: se le forze e la salute glielo avessero consentito avrebbe percorso di nuovo gli stessi passi, con la stessa convinzione e lasciando le medesime orme sul terreno. Ma adesso era impegnato in un’altra esplorazione, la più complicata e densa di insidie, dove l’ignoto è capace di annichilire più di un serpente che penzola da un ramo.
Stava esplorando la propria mente, e aveva paura di quello che ci avrebbe trovato.

28 Marzo 2020 |Quarantena

Quarantena

28 Marzo 2020 | Quarantena

Li obbligarono al ritiro forzato, al personale deserto di Giudea: una quarantena, il tempo necessario per scoprire la propria natura.
Da principio la presero in allegria, con canti ed espressioni sonore e chi un tempo voleva pulirsi il culo con la bandiera, ora lo sventolava con orgoglio.
Ben presto i canti lasciarono il posto alle urla e la musica alle grida strazianti.
Sopravvissero soltanto coloro che si accordavano con favore alla solitudine: gli amanti dei libri, gli scrittori, i musici e qualche artista genuino. E poi i carcerati, gli anacoreti e i gatti; gli alpinisti, i capitani di corvetta ma non gli uomini soli al comando.
Gli altri trovarono la libertà gettandosi dal balcone, chi da solo, chi in compagnia dei propri pensieri e del proprio cane.
E fortunati furono quelli che abitavano ai piani alti.

Nebbia

Paolo Perlini - Nebbia

 

 

10.02.2020 | nebbia

Ti era caduto l’occhio su di me e non sei stata l’unica.
Ti avevano avvertita, ti avevano messa in guardia, te lo avevano detto di non indugiare troppo nello sguardo.
Ma tu ti sei incaponita, hai fatto di testa tua e l’occhio ti è caduto, ha rotolato, è rimbalzato, ha giocato di sponda con il muretto del marciapiede, è salito sull’idrante rosso e mi è saltato addosso.
Girava, pulsava, in pochi minuti mi ha incantato e reso prigioniero, avvolto in una nuvola soffice ma penetrante come la nebbia di campagna.
E ora vuoi andartene?
Mi spiace, l’occhio me lo tengo, lo affetto con cura, come faccio con le cipolle e non verserò una lacrima.

Febbraio

05_febbraio501.02.2020 | Febbraio

Lui dormiva, aveva il respiro pesante, quello dei gatti quando stanno per morire. Lei si mise in piedi sopra di lui e impugnò la pistola con entrambe le mani perché così aveva visto fare. C’era solo un punto a cui mirare ed era quella ruga d’espressione in mezzo alla fronte. Chiuse gli occhi e sparò.
La prima a gridare fu lei e subito dopo la pistola le cadde dalle mani. Poi gridò lui, terrorizzato per l’esplosione e per quella cosa che gli era passata vicino all’orecchio.
“Ma che hai fatto, sei impazzita?”
“Ho sbagliato, volevo solo vedere come era fatta una pistola” si scusò.
“Volevi vedere? Mentre io dormo tu vuoi vedere come è fatta una pistola? E ti metti a cavalcioni sopra di me? Tu volevi ammazzarmi!”
“Hai ragione, volevo ammazzarti”.
“Perché? Dimmi perché?”
“Perché è febbraio, fuori fa freddo ma tu sei ancora più gelido. E io non voglio congelare. Avevo mirato alla ruga che hai in mezzo alla fronte ma devo essermi distratta”.
Lui si alzò, prese la pistola e gliela puntò contro.
“Io non mi faccio distrarre” disse.
Invece, quando la scollatura della vestaglia fece un sospiro, lui perse la testa e la pistola gli sfuggì dalla mano.
“Conosci altri modi per spianarmi la ruga?” le chiese.
“Forse sì”.
“Sono disposto a correre questo rischio”.

Inverno

27/01/20 Inverno.

coltello

Nei miei nove minuti di follia – perché non è vero che questi siano cinque o dieci, come riportano sempre i giornali – ti avevo accoltellato più volte. Ne avevo contate ventitré, come quelle inferte a Cesare. Del resto era il 15 di marzo e non potevo fare altrimenti.
Erano stati colpi precisi, sferrati con potenza, in qualche caso a due mani e tu non hai mai gridato.
Sei rimasta impassibile.
Sì, qualche volta hai avvertito il colpo e ti è partito uno sbuffo dalla bocca, un’altra volta hai socchiuso gli occhi, ma quasi sempre sei rimasta con quel sorriso perfido sulle labbra. Tuttavia, non è stato questo a impressionarmi. Mi ha sorpreso l’assenza di sangue: nessun rivolo, nessun fiotto, nemmeno una goccia.
Ho provato ad allargare una ferita, a scoprire una vena e allora mi sono reso conto che il sangue era solidificato, come se l’inverno del tuo scontento ti avesse aggredito fin dentro le viscere.
Nel tuo ultimo istante di vita l’hai anche detto: “È inutile che cerchi: non ho mai versato sangue per gli altri e non lo farò mai”.

Anni

18 gennaio 2020

Indossavo pause di Beethoven e crome di Ravel,
mi profumavo con fragranze di bolero e note appena uscite dal pentagramma.
Mangiavo mordenti a colazione, acciaccature a mezzogiorno e Chopin fuori pasto.
Passeggiavo su viali impressionisti con Van Gogh e Gauguin
e poi quei maledetti francesi di Verlaine e Rimbaud.
Nei sotterranei di velluto seguivo le funzioni di sacerdotesse del punk, re lucertola, duchi bianchi ma non camminavo on the wild side: sgranavo rosari veri con la nonna paterna.
Erano i miei anni di trementina, i più lieti e tristi.