Se vi capita di correre al Central Park noterete ben presto che che è popolato quasi esclusivamente da forestieri. Sono tutti di colore i bambini che giocano nel prato, hanno tutte l’accento dell’Est le donne sedute sulle panchine, vicino al castello di legno.
La lingua romena è in una tonalità che devo ancora decifrare, comunque sta sopra le righe, pare quasi una nota inesistente, trattenuta. Mi ricorda un atterraggio lungo, di quelli che ti fanno puntare i piedi sul sedile davanti.
Vi sono delle rare eccezioni ma una cosa è sicura: gli stranieri amano la vita all’aria aperta, a noi piace stare al chiuso, in casa propria o nei centri commerciali.
Con qualche eccezione.
Ad esempio, alla curva del Morar ogni tanto c’è un senzatetto. A volte lavora a maglia, altre volte inveisce contro i dirigenti dell’ospedale vicino oppure paventa qualche disastro per il prossimo settembre. Ha una voce potente e soffusa, difficile da rappresentare. Ecco, per imitarne il suono dovreste prendere un bidone di latta, riempirlo a metà con della sabbia, avvolgere il tutto con una coperta e poi percuoterlo con una mazza.
Sul rettilineo, prima della curva del Morar, c’è la controfigura di Carlo Verdone. Non credevo che potessero esistere persone così, pensavo che fossero solo macchiette create dal regista. Forse è proprio per questo che i suoi film non mi sono mai piaciuti. Con tristezza ho scoperto invece che i suoi personaggi esistono veramente e faccio ammenda.
Un giorno, che può anche essere prossimo, mi fermerò con una scusa qualsiasi e gli chiederò da dove viene, se spunta da un film, se è oriundo, se ha imparato a parlare guardando la televisione. Voglio capire se è genuino. Perché io poco apprezzo Verdone, ancora meno i suoi epigoni.