Guido
Ti ricordi quando io di te
– e senza Lapo –
Fui presa da incantamento?
E ricordi il tempo in cui
io di te nulla sapevo?
Sì
Ecco, mi eri più simpatico.
A quel tempo t’amavo.
Guido
Ti ricordi quando io di te
– e senza Lapo –
Fui presa da incantamento?
E ricordi il tempo in cui
io di te nulla sapevo?
Sì
Ecco, mi eri più simpatico.
A quel tempo t’amavo.
Io sto avvinghiato con il braccio sinistro alla pertica centrale, lei è aggrappata al montante superiore. Ad ogni frenata i nostri corpi si avvicinano.
“Ti ricordi di come giocavano le nostre due cagne?” mi dice.
“Lo ricordo benissimo. Si rincorrevano nel campo, abbaiavano insieme verso i fantasmi, lottavano come dei cuccioli. Sudavano! Non immaginavo che i cani potessero sudare così tanto”.
“La tua cagnolina era più agile” dice alzando gli occhi, come se dovesse prelevare le immagini dai cassetti della memoria, quelli disposti in alto, a volte sopra l’armadio. “Sì, era più agile ed elegante”.
“Era anche negligente, non riuscivi mai a fermarla. La tua invece era un po’ goffa, con la pancia che sfiorava il terreno. Però era simpaticissima”.
Adesso l’autobus corre sul rettilineo. In questo punto, di solito, l’autista schiaccia il pedale dell’acceleratore fino in fondo, tanto lo sa che veloce non può andare, qualcosa glielo impedisce. E l’automezzo strilla, sibila, copre le nostre voci e fa vibrare i sedili, le pertiche e i montanti.
“Ti ricordi di quella volta che le abbiamo smarrite? Bastava chiamarle per vederle tornare, invece quella sera…”
“Ci eravamo distratti noi. E il campo era grande, non ci hanno più visto”.
“Sì, però poi le abbiamo ritrovate: la mia sul portone di casa, la tua nel cortile. Lo avresti mai immaginato?”
“Per niente”.
L’autobus sta rallentando, anche le sue viscere si rilassano e le vibrazioni cessano. Un’altra fermata, la sua, e poi c’è il capolinea.
“E lo avresti immaginato che un giorno ti avrei lasciato?” mi chiede toccandomi il braccio con l’indice e il pollice, giocando con un filo bianco che spunta da una cucitura.
“Sì, lo sapevo. Altrimenti non ti avrei mai amata”.
Accompagnate da un soffio le porte si aprono, lei molla la presa, quella sul montante e quella sul mio filo.
Sorride a metà e scende.
ecco, questa volta, a differenza delle altre, non dico nulla.
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Te lo dico perché è meglio farlo, non si sa mai,
un giorno ci sei e l’altro pure ma il terzo non è
certo e poi sta nel gradino più basso del podio.
Te lo dico così, con questa lingua incerta
che un tempo amava leccare francobolli
e i bordi delle buste, questa lingua che qualche
difficoltà trova nella piega che induce a fischiare.
Te lo dico adesso, quando l’ora è solare e vale di più
perché primogenita e non subirà arringhe, processi e appelli.
Te lo dico perché lo penso ed è un’ idea che mi reclama,
lo sento nel tendine del braccio, nel petto impanato,
nell’occhio che combatte con il dente e viceversa.
Dico che vorrei invecchiare con te, vedere il tempo
che con un rastrello passa sul tuo viso e poi inumidire
ogni profonda ruga con la punta di questa lingua
che incerta rimane ma ristoro può dare.
Te lo dico, vorrei invecchiare con te
ma anche fermare il tempo, come una foto
ben sviluppata e fissata con cura, appesa al filo
a sgocciolare, incorniciata o nascosta tra le pagine
di una vita, incastrata tra righe di parole,
riposta in un cassetto tra mutande e calzini bucati.
Te lo dico, e se domani ci sarai e dopodomani pure
e se anche il terzo giorno aspira a diventare il primo,
ecco, lo dirò ancora una volta.
Questo post di Diemme mi ha fatto venire in mente una delle più belle canzoni d’amore, una canzone che ora mi diverto a suonare con la nuova tastierina elettrica, anche perché con questa posso simulare l’orchestra e il sax.
Una canzone d’amore o amicizia dove la parola amore non viene mai pronunciata e quando dice “cuor” lo fa in modo quasi ironico.
Una canzone che può essere scritta e cantata solo da un uomo. Basta sentire come si smorzano le parole, come le frasi siano interrotte, non finite, come se per lui fosse difficile cedere, troppo orgoglioso per farlo.
E poi quel brontolamento di pancia, quelle parole coperte dal kazoo, dalla tromba e chissà cosa dicono se si potessero filtrare. Per finire con quel uuuu-nununununununu accompagnato da altri strumenti, e quello…quello io so cosa vuol dire, ma il significato cambia a seconda delle persone.
Domenica mattina l’hotel offriva ai suoi ospiti tre quotidiani diversi e io non ho fatto complimenti, in certe cose sono molto goloso. Dopo una colazione pantagruelica ho sfogliato il primo giornale, sorvolando rapidamente sulle pagine dedicate al nostro comico nazionale. Mi sono fermato qualche secondo sulla notizia che avevo già visto qualche giorno prima in rete e che, essendo privo di tendenze voyeuristiche avevo evitato di guardare: parlo della ragazza di 17 anni frustata perché era uscita con un uomo che non era suo marito.
Ora, premesso che:
Concludo che, pur essendo un non violento, nel pomeriggio, quando mi sono trovato davanti a questo dipinto, di una delle più grandi e poco riconosciute artiste italiane, ho pensato che quella ragazza di 17 anni avrebbe diritto di fare questo, non all’estremo, fino alla soluzione finale, ma fermandosi un attimo prima, lasciando sul collo dei suoi carnefici tante cicatrici quante le frustate ricevute: una collana di 34 fili rossi.
Artemisia Gentileschi aveva sfogato con un dipinto la sua rabbia. E’ lei che sta decapitando Oloferne e bisogna andare vicino alla tela per vedere il sangue che schizza sui suoi vestiti, sul seno. E osservare i lineamenti del volto: duri, severi e allo stesso tempo sereni, come solo una vendetta eseguita su carta o tela può dare.
A pochi metri da lì ho trovato un dipinto che mi ha fatto riappacificare con il genere umano e che purtroppo riesco a proporre solo in bianco e nero: quella gonna alzata e quei pochi centimetri di pelle sopra il ginocchio sono tra le immagini più sensuali che abbia mai visto.
“Dovevamo proprio indossare questi buffi copricapi ?” dice lei a denti stretti.
“Certo! Servono per rendere più realistica la foto”.
“Realistica? Ti sembra realtà questa?”
“Sst…non ti muovere, altrimenti viene mossa”.
“Señora…tiene la boca muy enfandada!” dice il fotografo togliendosi il mantello nero. Si avvicina a lei, le sistema il ciuffo di capelli e la invita a sorridere. Poi ritorna dietro all’obiettivo, si piega e scatta la foto.
Mara sta pensando a quel giorno di pochi mesi prima, quando Francesco le regalò una scatoletta di velluto blu e le chiese di sposarlo. E lei, provando l’anello aveva risposto:
“Te lo dirò domani”.
Una risposta, secca e veloce, tanto per tenerlo sulle spine perché sapeva già che avrebbe accettato. Poco convinta ma lo avrebbe fatto.
“Mi aveva promesso un viaggio di nozze alle Maldive. Questo mi aveva promesso. E invece eccoci qui, tre giorni velocissimi a Madrid. Solo perché i suoi impegni di lavoro non gli permettono di restare via a lungo”.
Francesco la stringe. E’ curioso di vedere il risultato dello scatto.
“Vedrai, sarà molto più bello delle centinaia di foto che ci hanno scattato durante la cerimonia”.
Mara non ne è convinta e quella stretta le pare adesso soffocante.
“Señor, ecco qui la foto? Magnifica, non le pare?”
Francesco la osserva con attenzione. Immagina già la faccia che faranno i suoi futuri figli quando avranno abbastanza anni per valutare l’età di una fotografia.
“Incredibile! Sembra veramente una foto d’epoca”.
Mara osserva la foto di sbiego, la sfiora con un dito, passa sopra al tono virato in seppia.
“Già, sembra una foto vecchia, consumata”.
Come questo amore, le viene da dire. Invece, divincolandosi dalla stretta prende una banconota dal borsellino e la dà al fotografo.
“Tenga pure il resto” dice, “se lo merita, oggi mi ha aperto gli occhi”.
accappatoio – attesa – insulti
Dopo aver percorso le quotidiane trenta vasche, alternando lo stile libero a quello più rilassato della rana, Sonia salì la scaletta, calzò gli infradito e si tolse la cuffia. Sapeva che in quel momento gli occhi del bagnino erano puntati su di lei, sulla curva armonica che iniziava appena sopra le cosce e terminava all’altezza dell’ombelico. Sapeva che altri due occhi, quelli della sua collega Roberta, puntavano verso i capelli, lunghi, ondulati e ramati, tanto che un giorno le aveva detto:
“Sonia, quando esci dalla vasca sembri la Venere del Botticelli e per me quello è il momento più bello della giornata”.
Sapeva infine che gli occhi di altri uomini erano in attesa e che molti trascorrevano la pausa pranzo a quel modo, sorseggiando un aperitivo e sgranocchiando patatine, come se fossero al cinema o all’ippodromo, pronti ad interrompere ogni attività per osservarla mentre usciva dall’acqua.
Quando andò verso il muretto per raccogliere l’accappatoio, Roberta le lanciò un sorriso che ricambiò con un saluto. Sempre sentendosi osservata e sciabattando nel silenzio rispettoso che come sempre calava in quel momento, si diresse verso gli spogliatoi e fu solo dopo aver fatto la doccia che nella tasca trovò un biglietto piegato in quattro.
Lo aprì, spalancò gli occhi e per un attimo si portò la mano davanti alla bocca per reprimere un grido. Su quel biglietto si susseguivano una processione di insulti:
“Sei una zoccola, una puttana, una …” e continuava così per almeno dieci righe, una sequela di improperi fantasiosi ma impronunciabili, in un crescendo che raggiungeva le più torbide fantasie per poi andare in calando, concludendosi con un’ingiuria quasi classica ed innocente:
“Sei una sgualdrina”.
E fu in quel momento che Sonia sorrise, perché riconobbe la scrittura: solo la sua amica Roberta scriveva la lettera g come se fosse una p.
sabbia, sciarpa, calice
Juliette e Jim camminavano abbracciati sul molo di Saint Troipez. Lui la stringeva forte, quasi avesse il timore di perderla.
“Ho freddo disse lei”.
Jim la strinse ancora più forte. L’amava come non aveva mai amato nessuno e per un attimo pensò con timore all’idea che un giorno lei sarebbe potuta partire e lasciarlo solo.
“Tieni, mettiti la mia sciarpa” disse avvolgendole intorno al collo il lungo nastro di seta.
Dopo pochi minuti arrivarono sulla spiaggia, lei si tolse i sandali e cominciò a correre sulla sabbia.
“Aspetta, vieni qui, non abbiamo ancora brindato!” disse Jim.
Dal sacchetto di plastica prese la bottiglia di champagne e il calice di vetro. Lo riempì fino all’orlo e bevvero insieme una, due, tre volte, fino a svuotare la bottiglia.
“Mi gira un po’ la testa” disse Juliette. Un forte colpo di vento la spinse verso Jim e poi barcollò verso le rocce. Jim fece per fermarla ma riuscì a fare presa solo su un capo della sciarpa.
Fu uno strattone, si sentì distintamente un rumore secco e poi quello più tondo del corpo che cade.
Juliette se ne era andata, e lo aveva lasciato solo.
“Provaci tu”.
Due amiche, sdraiate sul telo di spugna, si passano una sigaretta. Il vento scherza con loro, scompigliandone i capelli e risparmiando la salute.
La ragazza più giovane non è scesa in acqua e poco prima si è rifiutata di giocare a pallavolo. Guarda assente il mare e i suoi amici che si spruzzano l’acqua addosso. Indossa un pareo, come tutte le altre donne che sono in spiaggia ma indisposte a fare il bagno.
Lei ha anche degli altri pensieri e li esprime sottovoce alla sua amica.
“Julien ha troppo l’accento di Marsiglia. I miei non lo vorrebbero mai”.
“Il prossimo autunno andrà a lavorare a Montecarlo, vedrai che lo perderà”.
“Sì, lo so, ma allora temo che lo perderò anche io”.
“Perché? Non ti fidi di lui? È un bravo ragazzo, molto dolce”.
Dall’accendino esce una scintilla e poco dopo, dalla punta della sigaretta si alza un sottile filo di fumo.
“Ma non capisci? È di me stessa che non mi fido” dice tirando tre boccate, “di me stessa, non di lui”.
La sigaretta si spegne, riprova ad accenderla ma dopo alcuni tentativi la spezza e la nasconde sotto la sabbia. In quel momento l’amica si alza, corre verso il mare e dopo tre passi si tuffa nell’acqua, fra le gambe dei compagni.
Lei sbuffa, sorride brevemente ed infine, sdraiandosi sulla pancia ritorna ai suoi pensieri.
La Londe, 19-06-08